Chi siamo e dove andiamo noi...

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venerdì 29 aprile 2011

EL TRAM NO L'ARIVA



Il finto tranviere che suona la tromba di segnalazione
è il fratello dell'allora farmacista di Poiano,
come ci ha raccontato la Signora Berton di Poiano.
Possiamo datare la foto tra la  fine della prima guerra mondiale e il 1922.
 

giovedì 28 aprile 2011

DAI NINA ... Intervista di Andrea della Primaria di Novaglie al nonno Piergiorgio.

Il nonno Piergiorgio che ha quasi ottant’anni, quando era giovane usava spesso il tram della Valpantena per far visita ai suoi parenti, a Lugo (quindi da Grezzana a Lugo andava a piedi Ndr)
A Porta Vescovo, dove adesso c’è il negozio (che era della Maio e ora ci sono dei negozianti della Cina Ndr) c’era la stazione dei tram che andavano a Grezzana, a Tregnago e a San Bonifacio.
Il tram era gestito dalla SAER (Società Anonima Elettricità Romagnola) ma che i veronesi dicevano “Salti alti e ropetoni”.
Il tram funzionava con l’elettricità, qualche volta aveva più vagoni.
Faceva molte fermate, nei paesi e nelle contrade. Il biglietto si comprava alla stazioncina oppure sul tram, direttamente dal bigliettaio.
Mio nonno conosce un tranviere che ora ha novant’anni e vive a Santa Croce. Si chiama Giovanni Signori.  (E' possibile intervistarlo e registrare il suo racconto? Nota del CiViVi)
Salire per la prima volta sul tram era molto emozionante, come prendere l’aereo.
Il nonno non abitava in Valpantena ma nella vicina Val Squaranto.
Ricorda che i paesi delle valli veronesi erano molto semplici, con case povere radunate intorno alla chiesa.
C’erano sempre i lavatoi perché nelle case non c’erano le lavatrici. Però la gente era buona, cordiale, accoglieva i passanti con un sorriso e un saluto.
I giovani giocavano nelle piazze o sulle strade perché non c’era traffico.
Il nonno ricorda che una volta fu coinvolto in un incidente tra il tram di Montorio e quello della Valpantena.
Nella discesa di Porta Vescovo si ruppero i freni del tram che veniva da Montorio e così il tram andò a sbattere contro quello che usciva dalla stazioncina per raggiungere Grezzana. Ci furono dei feriti e anche il nonno, che andava alle scuole superiori di Verona, prese tanta paura e una bella botta in una gamba.

I giovani della Valpantena non avevano molte aspettative; per lo più andavano a lavorare in campagna appena finita la quinta elementare e solo pochi potevano frequentare le scuole medie e superiori.



La vendemmia - Contadini della Valpantena
Foto Archivio CiViVi



La città era un ambiente molto diverso dal loro paese nativo e solo pochi andavano a Verona per divertirsi. Alcuni poterono farlo quando erano già adulti!
Quando dei cittadini arrivavano nei paesi tutti volevano avere  notizie della città e delle più belle cose cittadine come le vetrine dei negozi, i cinema, le più belle chiese, le novità portate dal progresso.
Alcuni cittadini si erano trasferiti in Valpantena durante la guerra per essere più sicuri e non dover subire le disgrazie dei bombardamenti.
Si percepivano delle diversità tra cittadini e paesani come il modo di vestire, di parlare, di essere più furbi e qualche volta imbroglioni!

SAGRA DEL BROCCOLO DI NOVAGLIE PASSEGGIATA A VILLA BALLADORO ORGANIZZATA DAL CiViVi


La Fontana delle Strie di Franzago
I ragazzini della Primaria di Novaglie hanno vinto il primo premio di Legambiente per una storia ambientata in questo boschetto magico dove non è difficile immaginare la presenza di striosse (streghe) e anguane.


Noi Veneti abbiamo nella nostra tradizione delle presenze magiche collegate  all’acqua le Anguane o Acquane.  Di loro si sono raccontate tante storie.
Le Anguane erano creature sacre collegate alla presenza di acqua o preposte a vigilare. 
Si diceva: “Sta lontan da la fossa  parchè gh'è le Anguane ”.  Un modo per proibire ai bambini luoghi pericolosi, come fossati, progni  o vasche di raccolta dell'acqua piovana.
Si diceva anche, e si dice ancora oggi di persona che grida:   “Te sighi come un' Anguana” .
Le anguane, presenti nella tradizione su una vasta porzione di territorio che va dalla Valcamonica all'Istria, erano nella fantasia popolare esseri urlanti, ma capaci anche di cantare in maniera soave, ammaliante.
Uscivano dall'acqua in forma umana o in forma mostruosa, mezza donna e mezzo serpente con leggere variazioni di sembianze da luogo a luogo. 
Potevano  aiutare e dispensare il dono della fertilità ma se maltrattate, potevano lanciare pesanti maledizioni. Non ricordavano il passato ma sapevano predire il futuro.




                                                  VILLA BALLADORO

La Villa merita una sosta perché è una delle ville più belle della Valpantena. Consigliamo anche  di  percorrere il sentiero a lato di Villa Balladoro e di proseguire oltre la fonte. Due sono le direzioni possibili: o a destra verso la collina e il Piloton, incrocio di molti sentieri, oppure a sinistra verso Novaglie. Entrambi i percorsi sono facili e ameni.  La verde conca che circonda la villa  è rimasta integra, o quasi.
L’aspetto attuale della villa è del 1700, con aggiunte successive.
La ristrutturazione fu ordinata dai conti Balladoro che ne entrarono in possesso nel 1650.
La chiesetta eretta nel 1694 conserva i caratteri barocchi. Conteneva in origine pale del Farinati e del Balestra.
L’interno non è accessibile. L'attuale proprietario è il Conte Pietro Malfatti.
La sorgente di Franzago, detta delle Strie portava l’acqua alla villa e alimentava le peschiere e le fontane.
La nostra guida, il Marco Guglielmi del CiViVi Storico dell 'Arte.
Il Dottor Guglielmi si è laureato con una tesi su Villa Balladoro.

BICICLETTATA DA NOVAGLIE A VILLA VENDRI, ATTRAVERSO LA COLLINA








I ciclisti, dopo un percorso collinare impegnativo sono scesi a valle a Vendri.
Il Dott. Marco Guglielmi, Storico dell'Arte ha condotto la visita guidata alla villa.

mercoledì 27 aprile 2011

LA CORTE DE LA IDA A MARSANA

Marzana dal 1952 al 1961

La Ida non è solo un mio ricordo; è una presenza che ritrovo nei ricordi di molte persone.
E' ormai parte della memoria collettiva del paese.
La Ida, maestra di vita per tanti ragazzini di Quinto e Marzana, era nata nel 1904 e fin dalla sua gioventù aveva ospitato "i buteleti" di Valpantena, dopo l'orario di scuola, nella sua casa alla chiesa, in fondo “a la pontàra”.
I più piccoli, col gavettino della pappa, li accoglieva già dal mattino presto.
La Ida aveva un aspetto massiccio e imponente che incuteva soggezione.
La severità del volto era soltanto leggermente mitigata da una cornice di capelli serici, raccolti a crocchia.
Aveva un vezzo. Inclinava lateralmente il capo con un tremito. Forse era un tic, un movimento che non controllava.
Era via via autoritaria o autorevole; dipendeva dalle circostanze.
Raramente era materna.
Le affettuosità le chiamava "sdilinque" e prendeva prudentemente distanza da qualsiasi manifestazione affettuosa.
Soltanto con i più piccini si lasciava andare con manifestazioni di tenerezza.
I baci allora erano sonori e poderosi. Come poderoso era qualche scappellotto. Non era manesca però.
Era soltanto figlia di tempi in cui si aveva consapevolezza dei ruoli e l’ordine dei valori non era messo in discussione.
Lei era la maestra, noi i "buteleti malmaùri".
Parlava spesso della biblica "pianticella da raddrizzare in tenera età" e si comportava di conseguenza.
I nostri genitori erano sempre d'accordo con lei.
La Ida era una devota alla Madonna di Fatima; il terzo segreto, non rivelato, la impauriva e l'intrigava in uguale misura. Con noi era categorica: sarebbe stata la fine del mondo, solo i buoni si sarebbero salvati, i cattivi avrebbero trovato posto tra le fiamme dell'inferno.
Le sue descrizioni erano accurate e precise nei dettagli. Le anime dannate "digrignavano i denti" e le fiamme dell'inferno erano "lingue di fuoco ardenti".
La Ida parlava abitualmente in dialetto; quando recitava le preghiere, leggeva le storie o citava frasi raccolte nelle sue letture si esprimeva in un italiano addomesticato così come addomesticato era il suo latino. Cambiava voce, espressione e persino postura: assumeva un’aria di importanza  e di enfasi che non potevi non darle ascolto.
Perciò i "danati che digrignavano i denti" (senza la doppia, alla veneta), mi sembravano ancora più tremendi e di monito.

La Ida da giovane, con la madre.
Sotto al terrazzino la Ida aveva costruito il suo piccolo asilo/doposcuola,
dove accoglieva e intratteneva i bambini di Quinto e Marzana.
Della Ida ho ricordi eccezionalmente vividi; alcuni olfattivi, molto intensi.
Dal profumo dei campi di grano maturo, quando con gli altri "bocia" percorrevo "la stradela" che dal Cristo di Lumialto continuava fino alla Chiesa di Marzana, al profumo di minestrone che permanentemente stagnava nella stanzetta a veranda della Ida.

Anche la Ida aveva un profumo di buono; ma questo si perde nei ricordi dei primissimi anni.
Si mescola a sensazioni di tenerezza e di sicurezza che mi trasmetteva quando, piccolina di tre anni, cercavo protezione contro i "maramàni" più grandi.
Non esisteva per la Ida un decalogo educativo che non fosse essenziale e di facile comprensione.

Tutto si poteva fare salvo pochissime cose, tutte ugualmente gravi: entrare nel suo orto, mancare di rispetto all'adulto, non dire a voce alta le "orassioni" (messa in latino e litanie) e tirarla per le lunghe con il proprio ricamo.

Dalla Ida si imparava a ricamare.
Punto erba, punto catenella, punto pieno, orlo a giorno (per le adolescenti che preparavano il corredo).
Anche i maschietti e i più piccoli avevano un loro ricamo.
L'unica cosa risparmiata ai maschi era l'uncinetto, a parte qualche caso raro.
Dopo preghiere lunghe e circostanziate, per i vivi, per i morti, per la Madonna e qualche specifica ricorrenza, la Ida ci raccontava LA STORIA.

Le storie della Ida erano veri e propri pezzi teatrali , a puntate.
Le sapeva raccontare come nessun altro.
Lei poi , le sospendeva sempre "sul più belo", quando l'eroina era in pericolo, o il cavaliere era "ne le ambasce" (altra parola sua).
Tutti in coro allora si implorava:
- "Ancora Ida, ancora".-
Lei però era irremovibile e difficilmente si lasciava commuovere.

La storia del rapimento "del'Angiolina de la Ca' Nova", io l'ho sentita da lei.
La raccontava a memoria, anche se ricordo un vecchio libro, logoro e con alcune pagine staccate ma con la copertina ricoperta, del quale lei era gelosissima.

La Ida sapeva ricamare con arte e insegnava a noi ragazzine la pratica del ricamo.
Preparare il corredo per la futura famiglia era, per tradizione, compito della giovane.
La Ida però metteva a ricamare anche qualche maschio, come antidoto alla turbolenza credo. 

La Ida amava i libri. Forse non ne aveva molti, ma li leggeva e rileggeva.
Alcune storie le aveva trascritte su dei quaderni dalla copertina nera che ogni tanto consultava.
Conosceva un'infinità di canzoni e di poesie e aveva frasi di circostanza adatte ad ogni occasione. Molte filastrocche della mia raccolta provengono da questo contesto di gioco.
Anche le commedie le conservava trascritte su quadernetti neri.
Allestiva per noi e con noi spettacoli con veri costumi che confezionava ricavandoli da vecchi abiti.
"Proàr la comedia" era uno spasso per tutti, oltre che una grande emozione.
La Ida, quaderno alla mano, recitava con enfasi tutte le parti. Poi toccava a noi.
Era molto esigente perciò potevamo star ore a provare la recita.

"Mamaluchi" ci rimproverava (ricordi d'Africa e delle colonie); ma non mollava mai.
E alla fine il risultato era sempre all'altezza delle sue aspettative e delle esigenze di un pubblico comprensivo che godeva di pochi svaghi.
La commedia di Santa Lucia
Da sx: Flavia, Giordana, Liberina, Paola, Marisa, ?

Tutti i piccoli attori protagonisti della commedia della Ida, bambini di Marzana e Quinto
Santa Lucia 1958
La Ida non dimenticava mai "Santa Lussia". I regali c'erano sempre e per tutti.
Certamente chiedeva contributi ai genitori ma qualcosina c'era, magari una "ruela de liguirissia" o " 'na naransa". Le nostre (rare) bambolette di celluloide le rivestiva a nuovo per l’occasione.
Santa Lucia era sempre vestita di bianco, col vestito di qualche sposa recente.
Naturalmente era “orba” col viso coperto da un velo.
Era accompagnata dal "gastaldo" (dignitosamente vestito di nero, con bombetta sul capo) e seguita dal "musso" che la Ida chiedeva in prestito al Biciclin.
Noi si diceva una poesia alla Santa, per avere in premio un po' di caramelle.
Di solito una bambina, scelta dalla Ida, faceva "i omaggi a Santa Lussia", a nome di tutti; belle parole scritte dalla Ida e mandate a memoria.
E da tutti noi tutti la prescelta era demandata a scoprire il mistero degli occhi.
- "Guarda se la g'à i oci - guardeghe soto, se gh'e i busi udi".-

E poi si sussurrava facendo capannello - "Gh'eto visto i oci?"

Forse per l'emozione nessuno di noi era mai riuscito a mettere a fuoco bene il volto della Santa.
Forse non lo volevamo nemmeno. Temevamo di irritare Santa Lussia con la nostra curiosità.


Conservo, insieme ai ricordi, un ricamo che ho fatto sotto la guida esperta della Ida. E' un prezioso ricordo, profuma di gioventù.
Mi fa ricordare le passeggiate della buona stagione, dai Canestrari a metà collina o "dale signorine vissin a la colonia".
Ricordo i giochi durante questi pomeriggi magici nel parco vicino alla Colonia degli Orfani di Guerra.
Dame taciturne e misteriose, per noi niente più che apparizioni.
Con la Ida però le signorine parlavano a lungo.
Quando lei entrava "diese minuti par un cafè" noi sapevamo che il caffè sarebbe stato lungo; si poteva contare su un pomeriggio intero di giochi sfrenati, perché la chiusura del doposcuola della Ida era comunque sempre flessibile; gli orari si adattavano alle esigenze delle famiglie e dei bambini. E anche della Ida.
Io frequentavo con orario intero fino ai sei anni e poi, come tutti, solo il pomeriggio, dopo la scuola.

A cosa si poteva mai giocare nel parco di una villetta che a noi allora sembrava un castello incantato?
A Son marinaio, gioco di destrezza  che cantato in italiano ci faceva sentire grandi ed evolute sul piano sociale.

Son marinaio
marinaio della Marina
porto le chiavi
dell'oro e dell'argento
Son marinaio
di questo bastimento
Finchè l'Italia
più libera sarà
Para papà papà (2)

Oppure al più rustico  Elo coto el pan

Elo coto el pan?
L'è un pò brusà
Ci è stà?
La Paolina

Pora Paolina
legata a le catene
fra mile pene
te tocarà morir
Oilì oilà
la Paolina encadenà

Era un gioco un po' complicato. Si formava una fila che man mano diventava catena con l’intreccio di braccia distese, mano nella mano, a far da ponte, sotto al quale doveva passare il capofila. Uno alla volta i bambini si incatenavano girando le spalle al gioco. Alla fine, senza slegarsi, tutta la catena si spostava a formare un cerchio e si cantava:

E tira mola e mola tira
Tira mola e mola tira
Tira mola mola tira
Tira mola lassa ‘ndar.

E si giocava "a l'Angiolina" naturalmente. Una storia vera, romanzata nell’ottocento dal Caliari, che narrava di un fatto accaduto due secoli prima: un rapimento a scopo di estorsione.

Dame, principesse, brutali rapitori, banditi di Falasco, cavalieri valorosi e buli feroci s'incrociavano tra le siepi di bosso.
Lo scialle ad uncinetto, unico indumento che noi bambine usavamo nella mezza stagione, diventava la gonnella della dama e i bastoni si trasformavano in spade per feroci duelli.

Cara Ida.
Quelli di noi che sono passati per "la sua corte" (così chiamavamo il suo doposcuola) non hanno dimenticato.

Non era "dona de mese misure" (come amava puntualizzare) e non poteva non lasciare dentro di noi l'impronta del suo passaggio.
Ultimamente, io ero già grandina, soffriva per la concorrenza dell'asilo parrocchiale e per l'istituzione dei "doposcola comunali"; ma noi "buteleti dela Ida", ci ritenevamo dei privilegiati.
Senza saper dare un significato al nostro sentire, ci sentivamo spiriti liberi.
Dalla Ida eravamo autentici, come "polastri ruspanti".
Il doposcuola delle "scole comunali" lo pensavamo come un luogo noioso.
La Ida lo chiamava "la caponàra".

Cos'erano quattro mattoncini di legno con cui giocare, qualche matita spuntata, o mezz'ora di ricreazione a confronto di un mondo intero da scoprire a piacimento?
Un mondo che ci apparteneva perché la Ida generosamente ce lo regalava tutti i giorni? (escluso il suo orto, naturalmente.)


Ida Mantovani  (nella foto a dx)
Fotofrafia della Famiglia Mantovani
Per gentile concessione


martedì 26 aprile 2011

A MORURI A PIE' ...


Da bambina ho avuto la fortuna di avere accanto persone  che sapevano ancora raccontare le storie.
"Vien qua bela che te conto quela de l'orso".
L'orso nella storia non c'era mai, ma si ascoltava il racconto con grande attenzione.
Forse è questa la ragione per cui ancor oggi mi appassiono molto al racconto, sia ascoltato che letto.

Una di queste persone, affabulatrici per tradizione, era zia Angela, una donna energica, generosa, nubile  e di carattere socievole e allegro.

Quando una non si sposava, dalle nostre parti si diceva "l'è butela".
Chi si chiamava Maria, ed erano parecchie a chiamarsi con questo nome, se restava nubile era sicuramente chiamata "Mariabutela" dove il nome e la condizione anagrafica si sposavano a meraviglia, quasi in forma musicale.
"Angelabutela" suonava più difficile ma comunque la zia, sorella di nonno Enrico, butela era rimasta. 
Le storie della zia spaziavano dai racconti della tradizione popolare ai racconti di vita vissuta; da fatti inventati a scopo educativo a miracoli  o accadimenti edificanti  a carattere religioso.
Anche se inventati i racconti avevano sempre uno sviluppo che potrei definire classico, in quanto corrispondevano ai canoni della narrazione popolare: il buono che trionfa e vince, il cattivo che viene punito, il debole o il fragile che cerca e trova compassione, l'astuto che può essere buono ma anche cattivo e perciò premiato oppure punito... e c'era sempre un salvatore e una salvata, in genere la bella e buona ragazza.
Le storie della zia finivano sempre con "Gato sgonfo, gato pelà, contela ti che mi l'ò contà".

Una delle storie della zia era:
Me ricordo quando 'ndava dal sio prete a  Moruri ...

“A Verona ghe ‘ndava  a piedi o col musso. Qualche volta trovava qualche caretier che me fasea montar sul careto ... .
I siori i g'avea la carossa. Me ricordo che qualched'un g'avea anca l’automobile.
I contadini  i ‘ndava col careto. Poareti. Contentarse parchè gh'era tanti che 'ndava a piè.
Mi andava a catar el prete de Moruri, l’era parente.
Quando l’era ora de Quarantore 'ndava a netarghe casa.
Partìva la matina bonora che gh'era ancora scuro ... me fasea el segno de la croce e fasea la stradela del ponte de banda. Gh'era cossita scuro che no te vedei gnanca el campanil de le Stele! 
Andava su par Maroni (S.Maria in Stelle) e dopo  zo  dall’altra parte nel Squaranto ... e po’ ancora su ... a rampegarse fin al pian de Castagnè.
Rivava straca, ma gnanca tanto; par strada, par farme compagnia, diseva tute le orassioni a voce alta e tute le giaculatorie ... .
No g'avèa mia paura. Era abituà. Quando ero picinina ghe portava sempre la colassion al nono, su al Pigno soto San Vincenso (di Quinto)!

Eh, l’era un bel viaio 'ndar a Moruri a piè... adesso i è tuti siori e i va tuti con l’automobile ... parquela ... 
Se discore ma l'automobile l’è ‘na bela comodità! 
Me fradel l’era tanto bituà a farla a piè che el vegnea da Borgo Trento, zo par le Toresele a catar me pora mama anca quando i l’à  fato general.

Raccontato in vita da Angela Allegri nata a Quinto nel 1902

Butele di Quinto in gita a Madonna della Corona 1920 circa
Da sx in prima fila Celestina Ferrroni e Angela Allegri.
Prima a dx Maria Zoppi

DAI NINA ... Intervista di Lucas , classe terza a nonno Franco Busato e a nonna Santina

Ricordo di aver visto il tram, aveva panchine di legno per potersi sedere. C’erano due  o tre carrozze per i passeggeri e due, tre per il trasporto merci.
Non siamo mai slaiti sul tram. Noi andavamo con i calessi e i cavalli oppure a piedi. Solo molto più tardi con una Giardinetta. Nel paese c’erano poche case vecchie. Più tardi vennero asfaltate alcune strade e costruite nuove case.

Foto da Google Immagini


Ricordo solo di aver tolto le rotaie del tram, quando lavoravo con l’escavatore.
Dalla città ci aspettavamo poco, solo lavori da domestici. La città sembrava un luogo irraggiungibile. Tra noi e i cittadini c’erano delle diversità: la lingua, il vestiario e anche il modo di camminare.

lunedì 25 aprile 2011

Archivio CiViVi Foto Perprunner 1953


Si giocava sulla piazza, ma poco, no gh'era tempo.
Si giocava alla pega, ai soldati, al cagaspesso (s’cianco)…
Quando veniva me pupà  sulla porta, el fasea un fischio e te molai tuto eh!

Quando faseo il chierichetto alla sera cargavimo l’armonio e ‘ndavimo all’Enal a scuola de canto.
Erimo in sei, tutti e siè ne la corale.
I disea “Se i manca lori  … no se canta!”
‘Ndaseimo in ciesa a prendere un furgonsin e quando l’era mezzanotte, el prete el ne lassava le ciave, e si  riportava l’armonium in chiesa. Pagavamo noi il maestro: maestro Verzè, el se ciamava.

Raccontato da Attilio C. di Quinto 1927

DAI NINA ... Intervista di Chiara classe Terza della Primaria Merighi alla nonna Zita Spinelli

Del tram nonna Zita ricorda i binari.
“Era fatto come un treno” dice, e ricorda che alle fermate si stava in piedi per essere pronti a scendere. Proprio come accade ora con l’autobus.
“Il biglietto si prendeva in stazione ed era di carta.”
“Si andava in tram perché non c’era altro mezzo di trasporto. Se non andavo in tram mi spostavo con la bici. Alcuni andavano in bici … per andare a lavorare nelle fabbriche.”
 Si ricorda dei militari che "studiavano per diventare militari.
Zita si ricorda anche che ”Una volta il tram ha fatto la curva ed è andato fuori dai binari e allora siamo andati a piedi”
“Avevamo delle aspettative verso la città: trovare lavoro. Andavamo in città ed eravamo felici di andarci perché le fabbriche erano lì”

Giovani militari 1937 circa
Foto famiglia Vassanelli

CENA SOCIALE AMICI DEL CiViVi Partecipazione libera di tutti i sostenitori e i simpatizzanti

LA CENA E' VENERDI' 29 APRILE
CON BALLI POPOLARI GUIDATI DALLA COMPAGNIA LA PRILLA
TELEFONATE PER LA PRENOTAZIONE

domenica 24 aprile 2011

LA LISSIA


Lavandare Archivio CiVivi


C’era in soffitta una grande tinozza di legno, serviva per il bucato ma anche per il bagno settimanale.
La nostra soffitta era tenuta sempre pulita e in ordine.
Ci si stendevano i panni perciò la mamma ogni tanto diceva che “Bisogna bruschinar le asse”.
Inginocchiate per terra, lei, zia Rosalia e la donna che aiutava in casa, con un secchio e uno spazzolone di saggina, pulivano energicamente l’assito della soffitta.
Le asse erano bianche dai tanti lavaggi! 
La nonna  ammucchiava in soffitta i  panni chiari e le lenzuola per la lissia.
Una volta non si cambiavano le lenzuola  molto spesso come ora; lavarle era un’operazione lunga, faticosa e complicata.
La nonna faceva venire un paio di donne del paese, per aiutarla a lavare le lenzuola di tutta la famiglia.
C’erano almeno sei cambi di lenzuola, da sistemare nella broda, oltre alle camise e ai tovagliati.

Si mettevano i panni nella brenta  e sopra si poneva un lenzuolo pesante (el bigarol) per  tamisar la sendre, su cui andavano versati secchi e secchi di acqua bollente.
La liscivia dal latino lixivium, lixia aqua, era conosciuta già dai Romani. Mescolando una parte di cenere con cinque parti di acqua bollente si otteneva una soluzione sbiancante.
Prepararla in dosi giuste era una vera e propria arte.
Se la liscivia era troppo concentrata diventava  aggressiva rispetto al tessuto e ne limitava la durata nel tempo. Perciò col dito, qualche anziana esperta, assaggiava sulla punta della lingua, la composizione della broda.
Zia Angela mi raccontava la storia di due donne alla fontana di Lumialto che cicola e ciacola ... tira mola tampela, le avea sbaglià la lissia e le à sbusà i nissoi.  In un regime di magra economia, era un danno assai grave.
Le donne del bucato arrivavano alla mattina presto,quando ancora era buio.
Indossavano el scossal, il lungo grembiule per il bucato, e si mettevano subito all’opera.
Dopo un notte di  ammollo dei panni veniva tolto lo zaffo alla brenta (el cocon) e si lasciava uscire la broda, detta anche lissiasso, che veniva recuperata per riutilizzarla nell’ammollo e nel lavaggio di altri panni.
La biancheria veniva sistemata nelle ceste e portata con un carretto alla fontana per bruschinarla e resentarla.
La sera prima si avvisavano i vicini per avere la totale disponibilità delle vasche che andavano svuotate, pulite e riempite.
Far la lissia era un grande fatica.
Appoggiate alla pietra inclinata della fontana si insaponavano le macchie più resistenti  e col bruschin di saggina si strofinava con energia.
Poi si resentava  e  si lasciava riposare la biancheria sulla pietra inclinata, torcendola alla fine per togliere l’acqua in eccesso.
Nel caso delle lenzuola, per questa operazione,  bisognava essere in due persone.
La biancheria veniva ripiegata e riposta nelle ceste.
Si puliva il filo e si stendeva la biancheria  all’aria.
Le lenzuola cosi trattate diventavano bianche, candide, e avevano un buon profumo di pulito, ma che fatica!

Raccontato da Marisa Venturi 1948 Quinto

La fontana della Strà di Marzana (inizio Via Scuola Agraria)
Negli anni Cinquanta la fontana (qui come altrove in valle) è stata sostituita da lavatoi in cemento.
In paese si vanta ancora la robustezza della tettoia, che riuscì a portare un'intera banda musicale.

DAI NINA ... Intervista alla nonna di Giulia classe 3^ Primaria Merighi di Novaglie

Del tram mi ricordo poco, non ci sono mai salita. Andavo a piedi. Andavo a Montorio da mia zia e a Ponte Florio dai nonni.
Il paese era povere, le strade erano bianche e c’erano le bici.
I giovani non andavano in città ma in parrocchia. Qualcuno (anche io) andava al cinema.
Non c’era timore verso la città, semplicemente non ci si andava! Non c’era l’occasione per andarci!
Domanda: Avevate contatti occasionali con qualche cittadino?
Sì, la mia famiglia aveva rapporti con il signor Malfatti che abitava in Piazza Bra. Lui era il padrone della casa in cui vivevo e dei campi dove lavoravano i miei fratelli.
Durante la seconda guerra mondiale si trasferivano in campagna tanti cittadini per paura dei bombardamenti.
Domanda: Percepivate una diversità tra voi e i cittadini?
I cittadini parlavano l’italiano e le signore al posto del grembiule avevano dei bei vestiti e portavano le scarpe con i tacchi.

Foto da Moda anni Trenta, Immagini di Google

sabato 23 aprile 2011

EL VANESA, EL VANESA

La storia di Gioachin da le Stelle è  ormai entrata nell’aneddotica familiare. Ancora oggi nei loro incontri le cugine se la raccontano con gusto.

Gioachin faceva il giardiniere, come tanti altri ragazzi di Santa Maria in Stelle. Cominciò che aveva tredici o quattordici anni, con qualche lavoro di giardinaggio dalle siore de Verona.
Partiva presto la mattina, in bicicletta.
Erano periodi di magra, la fame era tanta e spesso si lavorava a pancia vuota.
Un giorno Gioachin, mentre con la bicicletta tornava dal lavoro, svenne in mezzo alla strada per la stanchezza e il digiuno forzato.
Le signore intorno erano spaventate; si davano da fare a fargli aria e a cercare di farlo rinvenire.
“Ci sito? Da ‘ndo viento?”
“Son da su, da le Stele”
“Oddio el vanesa , el vanesa (vaneggia), poareto!”
“Da su dove?”
“Da le Stele”

“Porocristo el vanesa (vaneggia), poareto, l’à ciapà 'na bota de quele bone, l’è 'ndà fora de testa … ". 
"Pessega dai ... ciama  el dotor”

raccontato da una nipote





Vincent Van Gogh Oslo National Gallery
Disegno a carboncino


venerdì 22 aprile 2011

DAI NINA ...Miriam della classe 4^ Primaria Merighi di Novaglie intervista nonno Franco

Nonno Franco ha abitato a Modena, da piccolo, poi a Avesa e poi, dai tredici anni ha abitato in centro città.

C’erano delle filovie che andavano a filo elettrico; funzionavano con due spazzole che toccavano i fili, che davano energia elettrica. La forma della filovia era quella di una corriera un po’ piccola. La filovia seguiva i fili che facevano un percorso aereo. Le filovie non inquinavano.
Io non sono mai andato in tram a Verona. Usavo la bici per andare dappertutto. Andavo al lavoro in bicicletta, da Avesa fino in Corso Portoni Borsari e ritorno, due volte al giorno. Facevo il garzone di bottega.
Da piccolo abitavo in provincia di Modena. Non c’era traffico e tutti andavano a piedi o in bicicletta.
Mi ricordo che una volta nei pressi di Quinto un uomo è finito sotto il trenino. Ho visto il trenino fermo, ma non ricordo altro.
Io penso che i giovani della Valpantena sperassero di andare a lavorare in città.

I cittadini prendevano in giro quelli che venivano da fuori. Soprattutto il sabato pomeriggio il centro della città si affollava di “paesani”.


Dai Nina che nemo a Verona ...
Nina era un vezzeggiativo per definire una bambina o un bambino.
Andare a Verona era una eccezione, per i paesani.
Di solito si andava per particolari ragioni: la Cresima, un matrimonio, una visita medica alla Mutua ... .
I paesani chiamavano i cittadini "piassaroti". In Valpantena, zona di transito da/per i Lessini e la città, c'era una certa aria di superiorità rispetto a chi veniva invece dalla montagna.
"Montagnar" si diceva di persona selvatica, burbera, dal parlare duro.
Ad esempio, se in città si diceva "me papà" e in Bassa Valpantena "me pupà", sopra Lugo, si pronunciava "me bupà" ...
Foto anni Cinquanta - Piazza Erbe
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