Dal romanzo storico Angiolina di Pietro Caliari – 1884, riedizione del 1988 a cura di Luigi Antolini per la Comunità Parrocchiale di Stelle pag. 65-66, vi proponiamo la descrizione del palazzo:
“Il palazzo dei Giusti distrutto: II principale palazzo dei Giusti sorgea, nel paesetto di Stelle, a capo d'un viale ombreggiato di bossi, cipressi e lauri, de' quali taluno ancora sussiste, e precisamente dinanzi a un ameno giardino. Era sontuoso per isfoggio di architettura, con un gran cortile che sembrava una piazza d'arme, ed era adorno di torricelle e di logge e di saloni, ornati di tappezzerie, e di stanze vagamente dipinte da Francesco Torbido e da altri. La facciata presentava molti caratteri di stile gotico, tutta incrostata di pietra viva, e, come ne fa menzione anche Scipione Maffei, nella sua Verona Illustrata, qua e là scolpita di eleganti distici latini. Le finestre erano intorniate da fasci di colonnette, da capitelli e ricchi ornamenti a traforo, e l'ampia terrazza, che sporgeva sul portone d'ingresso, appariva sostenuta da cariatidi gigantesche, eseguite, con molta grazia, da scalpello maestro.
Se però l'esterno di questo palazzo era noto a molti, bisogna dire che l'interno di esso era un mistero. Gli abitanti del paese, girando di bordo alla larga, se ne tenean sempre a rispettosa distanza, perché tutto il meraviglioso v'era avvelenato dall'aria mefitica del delitto. Noi quindi non ne abbiamo che qualche vaga memoria conservata dal volgo, il quale, credulo sempre, non cessò ancora di ritenere che vi fosser pozzi con rasoi e trabocchetti e gabbie di ferro, e tante altre diavolerie inventate dall'uomo per martoriare i suoi simili, e non cessò mai di supporre le solite ubbìe; che cioè, per esempio, chiunque, in una sera di plenilunio, fosse passato dinanzi al cancello della villa o avesse guardato giù dal poggio sovrastante, dopo il segno dei morti, avrìa visto aggirarsi di qua, di là, d'intorno, di sopra e dai lati, un'infinità di fuocherelli, di lemuri e di larve bianche, azzurre, grigie, che svolazzavano con ali da pipistrello; e che poi, allo scocco della mezzanotte, vi si vedean dei grandissimi spettri, i quali si recavano a specchiarsi nelle fontane e nelle peschiere o si fermavano a dialogar sul davanzale delle finestre, o a segar bruscamente il violino sullo sporto della terrazza, e sulle punte dei pini, mentre altri spettri, deposto il candido mantello, abbandonavansi, roteando, a una danza macabra, simile a quella di Martino Schoen, o alla ridda descritta dal Goethe, o (per non uscire d'Italia) a quella di Clusone. Doveano allora, dalle glebe del vicino sagrato, uscir fuori a far capolino altri morti (a un dipresso come i diavolini di Norimberga dalle finte scatole di tabacco) e questi, dopo di avere scalato il campanile, della parrocchia, e drappellatovi sopra un funereo panno, dovean plaudire con istridule fischiate, alle quali, lontano lontano, faceva uno scroscio di risa e di cachinni sardonici, che dovevano essere di Satanasso…”
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